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La CASA EDITRICE PAGINE durante il programma ” Regala un libro” di ISORADIO, Canale di Pubblica Utilità della RAI, presenta la raccolta “Ma sono libera dentro di me – Poesie a Rebibbia”. Tale volume raccoglie i testi delle detenute dopo un corso di poesia che la Casa Editrice Pagine ha tenuto, per un anno, presso il carcere femminile di Rebibbia.


INTRODUZIONE

“Qui a Rebibbia sulla fradicia riva…”

a Ida Del Grosso,
Direttrice illuminata
di Rebibbia/Donne

Anno strano, anno di transizione, questo 2015… Crisi economica, dramma immigrazione, guerre epocali, conflitti di religione, cresce il terrorismo islamico in Europa (e non solo)…
Eppure, per arduo paradosso – da Papa Francesco ai più forgiati Capi di Stato – si intensificano gli appelli all’Uomo, all’Umano che è in noi… Alla solidarietà elevata a sistema…

Visto dall’ottica aspra e già di per sé dolente d’un Carcere, il paesaggio s’infittisce, le certezze vacillano, ogni verità si complica… Eppure… Eppure è strepitosa, diciamolo, la capacità che ha sempre ogni luogo di pena di suturare le sue stesse ferite, di corroborare, temprare e cauterizzare il cammino delle coscienze – e anche l’apprendimento in atto per una rinascita, una doverosa seconda possibilità…
Insegnare a Rebibbia – Rebibbia/Donne – è qualcosa di più di un adempimento didattico: è già un approccio di per se stesso solidale, insomma un gesto e conforto civile. Ma bisogna spogliarlo – questo gesto – d’ogni retorica, d’ogni alibi o scorciatoia, finanche culturale… Non possiamo, non potremmo permettercelo: “Il tempo della scuola è libero, non ossessionato da una logica produttiva.” – sottolinea Antonella Cristofaro, docente da anni presso l’Istituto Tecnico Tecnologico per l’Informatica “J. Von Neumann”, sede staccata di Rebibbia – “È il tempo della crescita, che può essere veloce oppure lenta; dove perfino l’imprevisto viene accolto e tutto si vive come invenzione collettiva.”…
Antonella, assieme al sottoscritto e a Nina Maroccolo, anima dall’autunno del 2013 un cosiddetto Laboratorio di Poesia (quant’è difficile definire, invocare ufficialmente la poesia! – darle perfino un riconoscimento istituzionale, ma non sia mai burocratico…), frutto del quale sono state altre due antologie come questa, testimonianza di impegno e fervore creativo dentro le mura, oltre le sbarre: Aspetto l’attesa e spero la speranza; Vedrò dalle sbarre la notte stellata…
Anche il titolo – il verso-guida di quest’anno – ondeggia altalenante, ossimorico: Ma sono libera dentro di me…

Insegnare a Rebibbia, imparare Rebibbia… Il “tempo della crescita” e l’“invenzione collettiva”, quest’anno è stato un bel progetto – adempiuto – di messinscena e teatralizzazione (anzitutto testuale, psicologica, poi “recitata”) delle nostre Prove per Medea… Libero adattamento e sperimentazione del testo classico (di Euripide, e anche di Seneca), contaminato con letture assolutamente moderne (Christa Wolf, su tutte), e meditazioni spassionate, spesso struggenti delle nostre allieve…
Un esperimento teatrale (ma anche didattico!) dove ciascuno ha detto la sua, ed ha interagito con gli altri, proponendo un brano, una riflessione che completava, prolungava la propria lettura in fondo con una piccola ma caparbia messa in gioco personale, confessione esistenziale, emotiva e culturale allo stesso modo…
Un po’ il test psicologico (psicoterapeutico?, come sempre è la scrittura), la effettiva, comprovata cartina di tornasole, di questo grande personaggio – o archetipo che dir si voglia:

Io mi sento Medea da 1
vita circa da 12 anni, e
Giasone ha sfruttato tutto
quello ke poteva da me.
Sono una Medea di oggi

(Laura)

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… Il tempo della crescita, il Tempo, ecco, come vero e assoluto “Comun Denominatore” di ogni pagina e ogni pensiero…
Quanto conta il tempo, dove sembra non sia più il proprio?…
Seneca del resto ne parlava come di una categoria perfino dell’Etica, massimo certo filosofema…

“… Allora, caro Lucilio, fa’ come mi scrivi: tieni stretto il tuo tempo ora per ora; dipenderei meno dal futuro, se avrai in pugno il presente. Mentre rimandiamo le nostre scadenze, il tempo passa. Tutto ci è estraneo, Lucilio, solo il tempo è veramente nostro: l’unica cosa di cui la natura ci ha fatto padroni; ma è passeggera e instabile, e chiunque può estrometterci da questa proprietà…”
(Lucio Anneo Seneca, Lettera a Lucilio, I, trad. di Nedda Sacerdoti)

Ecco i veri e sempiterni temi d’un corso di poesia in carcere – ad esempio nella nostra Rebibbia. Ecco il richiamo continuo, il disperato sogno di una libertà che mai si è inseguita e anelata con maggiore coscienza, ansia infebbrata…

La mia libertà
è negli odori e profumi,
è sentire che là fuori piove.
L’aria è fresca, sento
l’odore della libertà
quando camminavo per strada
e la pioggia che mi bagnava…

(Anthony)

Chiunque scriva dall’interno di una Casa Circondariale, sta già chiedendosi, spiegandoci, quanto vale la libertà; e quanto duole quando manca, inevitabilmente ti viene sottratta…
Eppure e per fortuna, ricresce da dentro!…
“Ma sono libera dentro di me” giura e spergiura Laura…
Dunque ritorna sempre proprio come auspicio, sogno e bisogno, quotidiano e supremo:
“Sento l’odore della libertà…” – intona Anthony; che molto la ricorda, e più ancora la spera…

Strepitosa, poi, come sempre, Vanesa – la quale ci ha regalato mese dopo mese sempre scritture eccellenti, acute, estrose e liberatorie… Dolente e perfino puntigliosa, ad esempio, la sua prosa sul “legame che non si spezza” fra Vittima e carnefice… Materia viva e pulsante per ulteriori approfondimenti di Psiche: anzi tra Psiche e Società – perché la ricognizione, l’analisi potenziale e conseguenziale, diventa facilmente antropologico-culturale…
Vittime lo siamo tutti, anche i carnefici…

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Tante, anche quest’anno, le poesie – a volte più liriche (Lucia, Anthony), talaltra più prosaiche… Un continuo, inarginabile diario in versi (Natasa, che chiama a far poesia anche il marito, i figli piccoli, si direbbe la sua famiglia intera)…
Qui a Rebibbia, attenzione, la poesia comprende parole dolci, certo, melanconiche – ma anche il modo di scriverle, disegnarle quasi sulla pagina… I fogli o i quaderni di Natasa, ad esempio – che testimoniamo anche in foto – danno il senso dell’ausilio, facile e profondo, che loro concede la poesia – e in generale la Scuola, l’apprendimento e lo studio, fra calcoli e pensieri, numeri e parole…
Cuori, cuoricini, fiori e fiorellini (anche fioretti spirituali?!) ricamano di continuo l’ansia delle sue (loro) giornate, intermittenti tra luce e buio, brevi esaltazioni, e una depressione insopprimibilmente latente o presente, insidiosa e imminente, sempre, ahilei, ahiloro, dietro l’angolo…
Nuvolette, petali coi nomi dei figli tracciati un po’ ovunque: su carta o fogli, o zainetti, astucci per penne e matite e pennarelli, cuori di plastica o cartoncino, stoffa, nylon o similpelle…
Così i piccoli-grandi temi di queste poesie sono il rimpianto (Lucia scrive: Mi manca… Mi manchi…); la richiesta strappacuore di perdono; la voglia di riscatto, sociali esistenziale emozionale… un po’ tutto insieme…
Il sogno, insomma, si trasfonde al bisogno… Natasa, che è mamma, sogna di poter tornare presto a fare la mamma, e adempiere il bisogno d’amore dei propri 5 figli…
Del resto, il corridoio dell’I.T.T., Istituto Tecnico per l’Informatica (condiviso con la sezione distaccata del Liceo Artistico Statale “Enzo Rossi”), la dice lunga sulla possibilità di trasformare, abitare un luogo, arredandolo soprattutto di fantasia e parole concrete…
Paolo Radi (pittore egli stesso, e artista di vaglia), Lucia Lo Buono, ma i docenti tutti nei vari Laboratori d’Arte del Tessuto, di Ceramica, di Decorazione Pittorica e Mosaico… non fanno che allenare le nostre allieve ai colori, ai materiali, alla percezione stessa dell’Immaginario – o meglio, della sua resa visionaria, in fiorire d’estro e icone…

Le foto di Nina Maroccolo, trasfigurano poi la voglia di volare, spaziare fantasiosi: insomma redimere, accompagnare il proprio istinto di libertà con le ali insieme stanche e vogliose di questi grandi uccelli (gazze, gabbiani) che si fermano, abitano e ripartono tra i tetti e il cielo di Roma, fra le antenne della modernità e il richiamo arioso d’azzurro, o denso, bianco o perfino incupito delle nuvole…

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L’Omaggio alla Rebibbia di Pasolini (si celebra quest’anno il quarantennale della morte), è stata infine una delle pagine più intense e struggenti della nostra Rebibbia di quest’anno. Certo il grande poeta de Le ceneri di Gramsci e La religione del mio tempo (ma anche il narratore di Ragazzi di vita e Una vita violenta, il cineasta di Accattone, Mamma Roma, Uccellacci e uccellini…) è stato il primo ad occuparsi artisticamente di Rebibbia!
Acceso sperimentatore e indagatore della vita e del dialetto delle periferie, delle borgate, del sottoproletariato romano degli anni ’50 – di una nuova Preistoria (così la chiamava, la poetava anche in Poesia in forma di rosa: e parliamo di mezzo secolo fa!) – Pier Paolo ha in fondo profetato, sofferto e intuito gran parte della deriva attuale, del malessere contemporaneo, delle drammatiche migrazioni epocali che tutt’oggi ci invadono, ma anche ci mettono alla prova, ci chiamano a dirci davvero umani, e solidali: al di fuori di ogni condizionamento o comodità informatica, digitale e quant’altro…
Noi, cittadini di pessime, ingorgate e trafficate metropoli oramai votate, colonizzate dal consumismo più becero, dalla globalizzazione cinica, tronfia e dissennata (che non bastano i progressi tecnologici, ripetiamo, a salvare, ad assorbire e giustificare)…

Ma tanti sono gli aspetti, i retaggi, i chiaroscuri, i palpiti al cuore – anche i nervi scoperti – di questa nostra cara, inquieta Rebibbia trasfigurata in poesia, educata a scriversi, a scriverci…
Rebibbia, quando si siede ai banchi di scuola, dimentica le celle, i chiavistelli che si chiudono, si aprono e si richiudono alle nostre spalle – e soprattutto alle loro…
Rebibbia, quando coltiva la fantasia le parole, i tessuti… e impasta pane e linguaggio, lievito e speranza; poi cuoce la retorica per darle forma di grazia, di gioia, di rito commestibile…
Rebibbia, quando scrive, e canta, inscena una Medea di tante Medee – e sceglie il teatro del cuore per palcoscenico vero.

Io mi sento Medea da 1
vita circa da 12 anni…

Rebibbia, che trova gioia – lo ricorda Anthony – perfino in una prima busta-paga (magari dopo tanti furti e furtarelli per mera e infelice sussistenza, bislacca sopravvivenza)…
Rebibbia, che la dignità perduta (o calpestata) la ritrova nei gesti, nelle parole, nei quaderni del laboratorio, negli orari stancanti e fertili del lavoro…

E qui anche il prefatore sottoscritto, cioè il critico e curatore di codesto libro, non può dimenticare la via aurea dei versi; e torna se stesso, cioè torna poeta, per chiedere – questa volta a una sua poesia – di omaggiare e incorniciare quelle degli altri; e soprattutto la pratica della fantasia, la certezza del desiderio, il rito fiero e illuminato del Lavoro. Del lavoro in carcere, per educarsi o comunque allenarsi a tornare fuori, veramente uscire “a riveder le stelle”… (o erano, sono e saranno sempre le troppe luci delle macchine, i lampioni usuali della nostra Città?):
Il lavoro in carcere
Dentro le mura il giardino, dietro
il verde le celle, le aule, corridoi
alienati dove la linfa è il fumo, irti
i sorrisi, placati… Rebibbia/Donne,
il lavoro nobilita: così il bisogno
diventa fabula, la paghetta un’elegia
che rima poesia e asfissia, eresia,
atarassia, e così sia… S’infebbrano
i destini, a risanarsi i tendini… Natasha
golosa in cucina, Anthony in lavanderia:
“La gioia per la mia prima busta paga!”.
Ma la pena fiorisce, fruttifica l’attesa…

Dentro ogni giorno un fare, e poi c’è
il sogno… Dentro la mente un giardino,
la porta da cui il cuore entra ed esce, libero.
Plinio Perilli

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